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Fabio Giampietro: vertigini metropolitane
Del 17/09/2013 di Lucia Conti - Sospeso in un atmosfera che ricorda Fritz Lang e Maurits Cornelius Escher, l'artista milanese si perde in abissi urbani che confinano

Fabio Giampietro, nato a Milano nel 1974, è un artista che usa la tecnica della sottrazione di olio su tela, praticamente una sorta di scultura attraverso il colore, per rappresentare l'alienazione dell'uomo, perso nello sconfinato deserto urbano delle megalopoli.
Le sue prospettive, sempre rigorosamente dall'alto ne qualificano e ne caratterizzanola pittura, così come la sovrabbondanza di neri, bianchi e grigi. Particolare importanza rivestono le impalcature, gabbie quasi oniriche per le quali l'artista nutre un'attrazione che diventa cifra stilistica.
Che si tratti dello scheletro delle giostre del luna park di Coney Island o delle armature di grattacieli che sembrano sfidare il cielo e sostituire la divinità, queste strutture portanti di ferro e cemento non smettono di riproporsi con forza quasi ancestrale, pur nella loro radicale modernità. In tutto questo non compare mai l'uomo, assente, ma costantemente evocato e presupposto, in uno scenario postmoderno fatto di silenzio e smarrimento.
I riferimenti per le atmosfere descritte, che di fatto attengono a una dimensione borderline sospesa tra il sogno, l'incubo e la visione, sono stati identificati dalla crtica in una serie di spunti culturali e cinematografici che vanno dal simbolismo orfico di Odilon Redon alla saga noir di "Sin city", dalla descrizione feroce delle metropoli che Allen Ginsberg definiva affondate in una "luce sottomarina" ad atmosfere che a tratti ricordano Fritz Lang.
Evidente, infine, l'influenza dell'enigmatica bellezza delle opere di Maurits Cornelius Escher, dal quale Giampietro mutua tecniche come l'autoreferenzialità, i processi ricorsivi e l'espediente del disco di Poincarè.